Cristiano Tomei. Un Imbuto di gusto

    fotografo Lido Vannucchi

    Cristiano Tomei con una cipolla

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    Cristiano Tomei e la geografia intima

     

    L’imbuto è quello strumento che permette a un liquido di passare da un recipiente a un altro dalla bocca più stretta. È una definizione che calza perfettamente per il ristorante di Cristiano Tomei, che da oltre due lustri ormai ci ha abituati al travaso del gusto dal grande contenitore della cucina italiana a quello più piccolo ma non meno prezioso della cucina toscana. Di più, viareggina e lucchese.
    Da quando si è insediato nell’entroterra lucchese, la sua visione si è sempre più venuta affinandosi sul gusto del mare, la nostalgia del salmastro e della pineta che si profilano ormai come meta a cui fare sempre ritorno, come una Mecca verso cui rivolgere ogni giorno il proprio saluto, e ogni giorno il risveglio è ormai immerso nel verde della campagna lucchese dove ha fissato la dimora e l’azienda agricola, sullo stesso asse che lo riconduce al paese natio. Viareggio, Migliano, Monsagrati, Lucca, la traiettoria è dritta nella geografia fisica, nella geografia personale del cuoco e in quella del suo gusto su cui si imbastisce la sua cucina.

    È un imbuto perché si parte dal grande calderone dei sapori toscani, con la pienezza degli ortaggi che nelle 4 stagioni si succedono all’insegna dell’amaro e dell’erbaceo, le carni di selvaggina e di cortile con le interiora che danno profondità scure anche ai piatti più sontuosi, lo iodio che arriva a ondate dalla costa, la cucina del calendario figlia della liturgia che alternava piatti di magro a pranzi di festa, dal Carnevale alla Pasqua. Il senso della festa carnascialesca, il tripudio della cuccagna spesso più sognata che realmente vissuta – perché la fame fa sognare piatti succulenti e abbondanti, senza mai poterli davvero addentare – sono tutti elementi che Tomei negli anni ha saputo travasare, distillare e distribuire nelle decine di piatti che oggi non si contano più, ma che si ricordano ancora nitidamente.
    È ancora reale il ricordo della Bistecca sulla corteccia, oggi chiamata bistecca primitiva, la carne cruda da mangiare con le mani adagiata in straccetti sulla corteccia dei pini di Viareggio affumicati, un piatto che dopo 10 anni è ancora un manifesto. E da lì si dipana tutto il resto, la ricerca sulla memoria dei piatti di Migliano, le zuppe di nonna e mamma, quel vegetale da inseguire nei prati con le erbe selvatiche già a perdifiato fino alla riva del mare, dal rosmarino alla salvia fino all’elicriso e l’artemisia e il finocchio di mare. E carni e pesci che si incontrano nei piatti, a darsi manforte reciproca nell’esaltazione di un morso o di un gusto di terra o di mare profondo, per scoprire che non sono mondi così distanti, per chi d’estate è pescatore e d’inverno cacciatore.

    Il senso di Cristiano Tomei per la pasta

     


    E poi c’è il desiderio spontaneo e innato di collegarsi al senso tutto italiano della pasta, specie quella secca, indagata a tutto tondo, forse perché Cristiano, nel suo essere ironico e irrefrenabile, ha voluto giocare con il pungolo che attanaglia gli italiani, sul punto di cottura della pasta, sul cruccio della pasta scotta. Un difetto che diventa spunto di ricerca, nel tentativo di andare oltre. Non solo scotta, stracotta al punto da dissolversi, da tornare pasta, anzi, impasto da cui ripartire. Un impasto che può essere fritto come pane per diventare un panino, o persino come farcitura di un raviolo. Pasta su pasta. Pasta al punto che persino un ortaggio può ambire nelle sue mani a diventare pasta, come nel caso della patata tagliata a velo, infarinata, cotta appena e condita con il pesto alla genovese. Un trompe l’œil che al primo assaggio non rivela il camouflage ma che fa saltare sulla sedia per la scoperta.


    Il riso non è mai stato un risotto, ma sempre una minestra toscana un po’ più asciutta, col chicco dall’anima croccante, a ricordare minestroni e zuppe e il riso di mare con cui si festeggia il carnevale dei rioni della Darsena viareggina.
    Sapori che non celano mai la nostalgia della gioventù spensierata, ma che oggi si vestono di una consapevolezza, quel senso di appartenenza che è cifra di riconoscimento, è l’essere radicato in una terra dall’identità culinaria composita, misera e nobile, che prende l’ascensore e dal passato si fa contemporanea. È il caso anche del tordello lucchese, quel piatto sbagliato che ha carne nel ripieno e nel condimento, ma che doveva esprimere tutta la potenza politica del governo napoleonico nel cerchio cittadino – perché il cibo è spesso manifestazione di potere – Tomei lo rilegge a scapito del cugino versiliese – che si esprime diversamente con tonalità più erbacee e un ragù più rosso di pomodoro – proponendo un raviolo cinese, come un gyoza, pasta tenace, condita dall’intingolo del ragù, la sua massima concentrazione, che ha tutto il sapore e la forza succulenta dell’originale lucchese. L’essenzializzazione, la concentrazione e lo straniamento dell’impasto lo astraggono dal tordello terreno, oggi emblema della trattoria lucchese.
    Il gioco dei grassi poi, è un’altra cifra distintiva, con l’impiego del grasso di prosciutto che sostituisce il burro anche nelle preparazioni dolci, così come l’olio extravergine è un filo rosso con il suo erbaceo amaro che arrotonda e pulisce in un colpo solo, persino nel dessert.
    La cucina è un atto totale, con quella concretezza a tratti ruvida, ma soprattutto sincera, nel ricordo trasfigurato dal processo creativo, una creatività volta al divertimento, all’appagamento, in una girandola di piatti e patti con l’ospite che accetta volentieri la complicità col cuoco. Cristiano Tomei non fa mai mistero di sé, ha doti oratore che affabulano e che aderiscono appieno al gusto, quel che racconta lo si morde coi denti, è una cucina che si fa scoprire, ma nella sua scaltrezza non spegne mai il desiderio di tornare a gustarla. Ancora.

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