È una buona novella quella che ci apprestiamo a illustrare. Non si tratta tanto di celebrare un ritorno, ma di confermarne una buona e casomai ritrovata salute. L’insaccato – cibo la cui origine si perde nella notte dei tempi, di cui archeologi e storici del gusto narrano fosse una preparazione presente già nella civiltà etrusca, fatta propria dai Romani e quindi trionfale in epoca medievale che ci piace pensare affatto buia – è uno di quei prodotti che rende gloriosa la gastronomia italiana in una trasversalità che accomuna tutti, grandi e piccini, poveri e ricchi. Si cresce tutti con la merenda a base di pane e prosciutto, pane e mortadella, pane e salame, e questi bocconi assurgono spesso nella storia anche a simboli di lotte di classe, oppure diventano oggetti di desiderio e di lusso nei casi di prosciutti particolarmente pregiati per artigianalità e qualità del processo di lavorazione della materia prima.
I salumi sono anche un cibo che non necessariamente ha bisogno della tavola per essere consumato, si fanno spazio nell’arco della nostra giornata come cibo da consumare per spezzare la fame, come merenda appunto, come pranzo da consumare in piedi, in un bar, per strada. Nel loro essere un alimento millenario, pop, veloce da mangiare, succulento, immediato, perfetto per la condivisione di pranzi e picnic, è stato a lungo appannaggio non solo dei frigoriferi di casa, ma anche dei famosi “antipasti misti della casa” di tante trattorie cheap e poco chic. Fette rinsecchite di prosciutti senza grassi, salami cacciatorini, prosciutti cotti con quei veli di madreperla spie di conservanti che li mantenevano perfettamente rosati con quell’odorino di salume non in salute.
Siamo però molto fortunati perché è in atto un riscatto, un processo di redenzione che ha radici sotterranee e ben ramificate e che siamo felici di portare alla luce. Sarà che siamo in un’epoca debordante in cui è possibile avere tutto e il contrario di tutto e recepirlo in egual misura allo stesso tempo, ma possiamo affermare senza tema di errore che i salumi sono tornati a essere un cibo ricercato, anche nel senso che sono tornati a essere oggetti di ricerca. Si registrano in varie guide importanti i migliori produttori e norcini d’Italia, si cataloga sempre più lo stivale attraverso il mosaico di lavorazioni delle carni attraverso la salagione e la conservazione in moltissime modalità da nord a sud, a ogni latitudine si trova una specificità nel gusto e nella lavorazione e ormai non fa più notizia affermare che sicuramente i salumi sono uno dei tratti distintivi della cultura italiana.
Ogni regione ha il suo salame, e veramente si può dire che il salame è il filo conduttore che ci fa sentire partecipi di uno stesso modus, insieme a pochi altri ingredienti – per dirne uno, il baccalà – perché il salame è un po’ l’emblema del pensiero antico del non sprecare nulla, oggi obiettivo virtuoso della contemporaneità. Del maiale non si butta nulla, ma poiché non si può consumare tutto insieme, bisogna fare in modo che ci accompagni e ci sfami nell’arco di un anno, in attesa di macellarne un altro il prossimo anno. Una mentalità atavica di cui non si legge solo sui libri, ma che raccontavano anche i nostri nonni, quelli vissuti durante la guerra nelle campagne. Gli animali erano una risorsa che garantiva la sussistenza tutto l’anno, e oggi in parte si torna a pensare così. Cibo veloce da consumare, certo, in piedi, per strada, tra due fette di pane, eppure, quanto tempo impiega un salame a diventare buono?
È una domanda che affascina molti di noi e che affascina anche il mondo della cucina, tanto che ormai la ristorazione ha creato intersezioni interessanti con ambiti che fino a poco tempo fa erano appannaggio esclusivo di certi mestieri. Il cuoco ha imparato l’arte bianca, compie studi sempre più profondi sulla lievitazione, grandi chef propongono il proprio pane come portata e non come accompagnamento dei piatti.
E non è più peregrino incontrare cuochi che si cimentano nell’arte della norcineria.
Urge comunque una piccola digressione, prima di raccontare della contemporaneità più stringente.
Vi sono sempre state grandi trattorie che nel farsi custodi dei propri territori, non hanno mai mancato di offrire ai propri ospiti i salumi delle loro terre, acquistandoli dai salumieri e norcini locali e raccontandoli sempre con vanto e vi sono trattorie in cui il plateau dei salumi vale il viaggio – che sia un salame di Cremona, un prosciutto di Parma in varie stagionature, la mortadella di Bologna, i salami violini di pecora, le soppressate, le finocchione. Vi sono anche ristoranti storici che conoscono il valore di questi prodotti e che nonostante siano classificati come alta ristorazione, non mancano di offrire una rassegna di grandi materie prime, salumi inclusi. Indimenticabile l’accoglienza all’Ambasciata di Quistello in cui i fratelli Tamani accoglievano in sala i loro ospiti con un tagliere di legno consumato e sempre un salame affettato da offrire agli ospiti a mo’ di comunione, prima ancora di sedersi.
Ecco, oggi in nome del recupero e del rinnovamento di valori quali lo scarto zero, si assiste a una new wave di cuochi che acquistano dai loro fornitori animali interi e che hanno imparato a smontare e lavorare in ogni loro parte. E non vi è differenza tra trattoria e alta ristorazione, è un principio che azzera ogni classificazione, e che si fonda esclusivamente sulla necessità e il desidero di indagare la materia prima nella sua totalità.
Non siamo qui in grado di offrire la mappatura capillare di tutte le realtà che si stanno adoperando su questo asse, ma vi sono alcuni esempi significativi che ci preme evidenziare a suggello di questa digressione.
I giovani fratelli Vergine, nel loro ristorante di Albiate, Grow, hanno intrapreso un percorso di valorizzazione del territorio, per cui ogni loro ingrediente non proviene da allevamenti o colture intensive, ma esclusivamente da produttori locali, inclusi i cacciatori che li approvvigionano di selvaggina e cacciagione, che loro lavorano attraverso frollature e salagioni che portano in tavola in varie fogge, non ultimo il brodo di salame, ovvero un’infusione dell’insaccato in un brodo, oltre a bresaole che hanno imparato dai norcini delle montagne lombarde.
Edorado Tilli, cuoco sperimentatore visionario, una sorta di novello Leonardo del gusto, nella sua fucina di Podere Belvedere tra le colline fiorentine, sta conducendo un’opera di scandaglio totale della bestia, per cui gli insaccati sono solo l’ultima propaggine di un percorso nel gusto partito dai garum, le frollature, le conservazioni e le lavorazioni di ogni parte dell’animale, che sia cervo, pecora, cinghiale, manzo. E nel suo ristorante di altissima sartorialità e unicità, si inizia il percorso con un tagliere che si configura come bestiario, una rassegna di salumi dal bue di due anni, la testina di cinghialino, il salume di anatra o quello di colombaccio, pecora e miele, dalle forme fantastiche perché il salume viene insaccato all’interno dell’animale stesso al posto del classico budello. E non è raro trovare un salame a cui spuntano zampe di uccelli, come una chimera, o come le raffigurazioni di grottesche e animali onirici delle miniature medievali.
In trattoria, Manuel di Gregorio applica lo stesso pensiero a ogni suo ingrediente, dal vegetale usato per intero, i gambi di carciofi messi sottolio, le foglie usate nei brodi, i cuori fritti o in casseruola, tanto per fare un esempio. Lo stesso con il maiale, per cui la testa viene trattata per realizzare la testina fredda, quella che in Toscana si chiama soppressata, servita come un antipasto all’italiana, con insalatina, giardiniera e salsa all’uovo stile olandese.